Il futuro è rischio, meglio impiccarsi al presente? Nesi, de Bortoli, Nietzsche, (ma soprattutto) le partite iva
“L’animale vive legato al piolo del presente” scrive Nietzsche nella seconda inattuale e tutto lascia pensare che se oggi quel trentenne avesse modo di ritornare nell’Italia che tanto ha amato, lo direbbe anche degli italiani. Si vive come se il tempo non avesse più distensione, diventato piatto come l’encefalogramma di un morto. Credo che molto dipenda dal senso perduto del rischio.
Sempre meglio impiccarsi al presente?
Prendendo spunto dalle paure nutrite dalle puntuali voci dei pericoli legati ai vaccini, Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera ricorda a chi se lo fosse perso (io, in effetti, me l’ero perso) l’editoriale pubblicato da Paul Krugman sul New York Times in cui il Nobel per l’Economia punta il dito contro gli europei “avversi ai rischi sbagliati”, vale a dire quelli di non apparire troppo pavidi con le case farmaceutiche invece di assumersi la responsabilità di superare certe cautele per ottenere subito risultati concreti. Da qui de Bortoli vira sullo strano rapporto che col rischio hanno gli italiani, avversi ai rischi ma anche alle polizze che dai rischi dovrebbero assicurare. “Siamo agli ultimi posti in Europa. Un solo esempio: il 78 per cento delle abitazioni italiane e in aree a rischio sismico, ma solo il 4,8 per cento è assicurato. Forse questo avviene per un eccesso di confidenza («A me non può capitare») o per la certezza, o speranza, che lo Stato possa provvedere a tutto e alla fine una soluzione ci sia sempre”. Ecco, la seconda strada è forse più terra terra ma con ogni probabilità quella giusta. C’è un’avversione culturale al rischio che in Italia va di pari passo con i bassi tassi di imprenditorialità. Un pensiero che ribadisce anche nel suo recente libro, Le cose che non ci diciamo (fino in fondo). “La produttività è un concetto oscuro (scambiata per il cottimo). Ci si illude di difendere l’occupazione finanziando aziende decotte. Si è convinti che lo Stato sia sempre l’imprenditore di ultima istanza, persino incurante del conto economico. Si ingannano così – ed è crudele, se ci pensiamo – anche le tante persone che hanno perso il proprio posto”. Si è sviluppata la convinzione per cui la migliore strategia di protezione di quel che rimane del benessere sia il mantenimento dello status quo, come se il futuro non fosse altro che un insostenibile rischio di fronte al quale è sempre meglio impiccarsi al presente.
Elogio del rischio
La filosofa e psicanalista Anne Dufourmantelle in un libro tradotto di recente da Vita&Pensiero ha dedicato uno studio bellissimo all’“Elogio del rischio”, in cui illustra come il rischio sia l’altra faccia della capacità di decidere. Il rischio è un kairos, nel senso greco dell’“istante decisivo”, è il tempo giusto, l’occasione adatta per tornare a decidere. Il rischio non è azzardo, non è rassegnazione alla paura, anzi il suo contrario, è la lotta per non rimanere succubi della preoccupazione di proteggere tutto sempre e a ogni costo. Rischiare, spiega Dufourmantelle, significa prendere in mano la propria vita ed è il modo più autentico per non rimanere vittime di “tutte le forme della rinuncia, della depressione bianca”. L’Italia in questa marea bianca di depressione annaspa da decenni. Negli uffici pubblici, accanto alla foto di Mattarella, bisognerebbe incorniciare la tabella sugli indici di produttività del Paese pubblicati dall’Istat qualche mese. Dal 1995 al 2019, prima dello tsunami Coronavirus, la produttività dei fattori fa segnare una variazione nulla (0%). Che significa? Che per produrre un bullone oggi occorre esattamente lo stesso sforzo produttivo in termini di ore di lavoro e investimento di capitale che serviva nel 1995. E di cose tra il 1995 a oggi ne sono successe.
Il problema non è la mondializzazione. Siamo noi
“Io sono questo. Questa sconfitta, questa rabbia e questo destino”, scrive Edoardo Nesi al termine di una reprimenda alla mondializzazione e al liberismo immancabilmente selvaggio nel suo libro dedicato all’“Economia sentimentale”, edito da La Nave di Teseo. Ma il problema non è la mondializzazione, il problema siamo noi. E lo spiega bene in altri passi di questo diario della pandemia scritto per conto del sentimento di autonomi e partite iva. Scritto al termine della prima ondata, la lettura del libro vale forse ancora di più adesso che di ondate ne abbiamo contate tre e non ci si stupirebbe di una quarta, ora che “siamo stati un modello” non vuol più dire buone cose, ora che al Governo dei Dpcm illustrati in diretta Facebook c’è un Governo silente che dell’economia ha il crisma, mentre del sentimento si vedrà. È uno sfogo quello di Nesi, che in pagine scritte come un diario si interroga su cosa succeda all’Italia del lockdown nell’intima e dannata consapevolezza che in lockdown l’Italia sia già da decenni. Nesi ci dice che l’Italia è in questa depressione bianca e bastano i titoloni dei giornali per capirlo, non serve la filosofia, non serve scomodare Dufourmantelle né tantomeno Nietzsche.
Le illusioni marce delle elargizioni
Si celebrano i soldi che l’Italia ha “strappato” all’Europa, i miliardi del Recovery sono stati portati in alto come un trofeo, e basta questo per dire tutto. È successo con i “ristori. “Tutto nuovo deficit, ovviamente, nuovo debito che un giorno toccherà ai nostri figli restituire, e non finisce certo nei consumi perché le italiane e gli italiani son diffidenti e impauriti, e questi soldi ottenuti dopo mille difficoltà e ritardi vengono incassati e subito messi da parte in attesa di tempi peggiori, come se invece di essere un sostegno emergenziale, la stampella del convalescente, quest’immane elargizione pubblica non fosse che una versione monstre del reddito di cittadinanza, e decretasse lo sdoganamento definitivo della quintessenza dell’idea che sta dietro a ogni elargizione pubblica, e cioè l’illusione marcia che si possa vivere senza lavorare perché tanto i soldi ce li passerà lo Stato”.
La seconda inattuale di Nietzsche, pubblicata nel 1874, all’età di 30 anni, si intitola “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”. In un ambiente culturale imbevuto fino al midollo del mito classico, la tesi centrale del filologo Nietzsche è che di troppa storia si può morire. Che la storia può danneggiare la vita perché il peso degli esempi rischia di condannare all’inazione. In Italia si ha oggi l’impressione che la storia non possa più danneggiarla la vita perché per avvertire le ferite bisogna pur sempre essere vivi.