Non fate l’elemosina e smettete di abbracciare i cani. Cinque ragioni “contro” l’empatia
Resilienza in discesa, presto sarà il tempo dell’Empatia
Il ciclo di vita della parola “resilienza” ha raggiunto il suo apice, sublimata dal legislatore nel Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) e tenderà ora a una lenta discesa. Non c’è da star tranquilli, però, che già una nuova parola tanto bella e presto – c’è da scommetterci – assai alla moda si va imponendo. È empatia, ovvero l’atto di fare esperienza del mondo come pensiamo che lo faccia qualcun altro. Quel modo così intimo e speciale di sentire l’altro tanto da avvertire – o avere la sensazione di – o darsi la sensazione di – proprio le emozioni così come le sta sentendo l’altro, un altro.
Ah, se il mondo avesse più empatia sarebbe senz’altro un posto migliore, signoramia. Sicuro? A quanto pare no. Al contrario, l’empatia è piuttosto simile a “una bibita dolce e gassata: invitante, deliziosa, dannosa”. Parola di Paul Bloom, psicoterapeuta, di lunghi studi in materia, che smonta numerosi miti e rimette a posto i concetti, proponendo una chiave di lettura poco simpatica probabilmente, ma di sicuro interesse.
Empatia, falsi miti e qualche evidenza scientifica
Siamo portati a credere che l’empatia abbia a che fare con la bontà, eppure nonostante i numerosi studi condotti – su materie di difficile misurazione, certo – questo collegamento è risultato debole o assente. Lo stesso può dirsi per un rapporto che potremmo stimare inverso tra empatia e aggressività: quest’ultima pare aumentare nelle persone meno empatiche di così poco che non giustifica le narrazioni che normalmente accompagnano il tema.
Quando qualcuno dice sento il tuo dolore come fosse il mio, sia chiaro, la possibilità che dica il vero c’è. Quando veramente accade, quando si avverte veramente il dolore di qualcun altro, si ha empatia, si attivano infatti le stesse aree cerebrali (corteccia cingolata) di quando si ha una esperienza diretta di dolore. Accade anche con la gioia, ma fino a un certo punto. Se qualcuno avrà una improvvisa notizia di felicità assai grande, di grande successo, si affaccerà in noi qualcosa che rassomiglia probabilmente all’invidia che non ci consente di gioire con l’altro. Sii felice, insomma, ma non esagerare, parafrasando Adam Smith.
E poi l’empatia subisce fortemente i riflessi delle nostre credenze, aspettative, dei nostri giudizi. Gli esperimenti sono tanti e appaiono concordi. Malati di aids: in un caso alle persone coinvolte in una ricerca è stata presentata la seguente narrazione: hanno contratto il virus a seguito di una trasfusione, in un altro caso invece: per via dell’uso di droga. L’asticella dell’empatia è salita più su decisamente nella prima narrazione. E che dire dell’empatia tra i tifosi della stessa squadra di calcio? Hanno sottoposto alcuni a uno shock doloroso sul dorso di una mano, poi li hanno resi spettatori di altri ai quali toccava la stessa sofferenza. Risultato: la risposta neuronale, l’accensione dell’empatia, la sensazione di dolore vi è stata solo per quelli che erano stati presentati come tifosi della stessa squadra, per gli altri no.
L’errore più diffuso è considerarsi immuni a questa forma di “discriminazione empatica”, il cervello lavora per tutti – chi più, chi meno – con meccanismi che sono similari. Tenuto conto di un elemento essenziale: l’empatia non si manifesta per la situazione teorica senza nessuna connotazione, senza nessuna persona specifica, prende forma non appena vi è l’opportunità di attivarla.
Quando si manifesta l’empatia e qual è il punto critico
I numeri, le statistiche sono ininfluenti (a Stalin si attribuisce l’espressione: una morte è una tragedia, un milione di morti è una statistica). Valgono invece le storie dei singoli e non è un caso che tutta la narrazione mediatica è invasa in maniera spropositata e spesso indecente da storie, fatti privati di singoli, con buona pace delle sorti comuni, dei temi collettivi.
In maniera non dissimile, in fondo, funziona il meccanismo alla base del cosiddetto “Effetto della vittima identificabile” di Thomas Schelling. Se tante organizzazioni, Save The Children in testa, insistono a mostrare bambini mal nutriti accompagnando le immagini con testi colpevolizzanti (se non doni e muore è colpa tua è il suono di fondo) è perché sanno bene che funziona. Così, su altri fronti, se vi chiedessero: c’è una lista di bambini che devono avere delle cure, secondo un ordine di priorità, sareste d’accordo a far salire più su, a far curare prima degli altri la bambina che sta decima in lista? Istintivamente direste di no. Riproponendo la stessa situazione dopo che vi hanno presentato quella bambina, la sua storia, il suo volto, molti invece si diranno pronti ad accordare alla stessa una corsia preferenziale. E questo accadrà tanto di più quanto più quelle persone chiamate a scegliere avranno una predisposizione all’empatia, che valga o meno la scala di Mark Davis o il quoziente di empatia definiti da Simon Baron-Cohen e Sally Wheelwright.
Questo è il punto critico che emerge dagli studi riportati da Bloom: l’empatia si concentra sul qui e ora, porta a sovrastimare i costi presenti e a sottostimare quelli futuri. E i nostri sentimenti per la sofferenza di pochi possono generare conseguenze disastrose per molti. Tanto più che, come nel caso dei tifosi, si esprime più empatia per chi si avverte più vicino. Non dissimilmente scrive, infatti, anche Elaine Scary da Harvard in un articolo molto letto “la difficoltà a immaginare l’altra gente”: chi si affida all’empatia concentrerà la sua attenzione su certi individui tendenzialmente “vicini”, con tutto quello che ne consegue.
La differenza tra empatia emotiva e empatia cognitiva
Tutto questo attiene all’empatia intesa come empatia emotiva, secondo le definizioni invalse tra gli studiosi. Differente è l’empatia cognitiva: non “sento” il tuo dolore, però lo comprendo. Onesto. L’empatia cognitiva, tuttavia, risulta anch’essa sopravvalutata. Di base, infatti, la sua natura è amorale. Avere la capacità di comprendere di più un altro è una qualità personale e tuttavia tutto dipende da cosa si fa di questa capacità. Per rimanere sui temi di attualità, in 1984, O’Brein riesce a ingannare Winston Smith perché ha capacità di comprensione dell’altro (empatia cognitiva) superiore alla media. Solo che la usa per fini criminali. Per quanto riguarda gli psicopatici, d’altro canto, è riconosciuto che abbiano una capacità di leggere i comportamenti e i desideri degli altri superiore alla media, solo che anche lì poi non è una dote che di solito porta a risultati di larga soddisfazione per chi ci ha a che fare.
Troppa empatia fa male anche a chi la prova
Far bene agli altri è moralmente giusto e ha molti effetti positivi sia dal punto di vista psicologico che fisico, sia nel breve periodo (umore) che nel lungo (salute). Tuttavia una eccessiva capacità di sentire empaticamente l’altro può avere effetti dannosi. È un rischio al quale sono esposte, neanche a dirlo, soprattutto le donne. Sono loro che hanno una maggiore capacità di “comunione non mitigata” e secondo uno studio della professoressa Barbara Oakley (i cui corsi on line sono tra i più seguiti al mondo) la maggiore propensione femminile ad ansia e depressione è legata al fatto che assumono su di loro più effetti da empatia. A quello in qualche modo si collega secondo taluni anche la questione che attiene al gender gap.
“Se gli uomini fossero empatici come le donne il gap di genere in materia politica scomparirebbe quasi del tutto” riporta a un certo punto nel suo testo Bloom.
Vie di fuga tra comportamenti privati e razionalità
Bertrand Russell, filosofo e pacifista, consigliava di leggere i giornali sostituendo i nomi dei Paesi, così da evitare condizionamenti di sorta e “sentire” in maniera più equilibrata quali fossero le tragedie del mondo. È un esperimento di sicuro interesse. E peraltro quello che più recentemente propone Elaine Scary non si discosta di molto. Una strada, insomma, sarebbe quella non di elevare gli altri al livello di quello che ami, ma di dare meno peso a se stessi. Ridurre tutto. Anche questa è operazione affatto complicata, per la verità.
Forse val la pena tenere in conto soprattutto la stratificazione in filosofie di antica origine assieme agli studi più contemporanei.
Considerato anche che le ricerche sugli effetti della mindfulness meditation dimostrano che la questione sta nel fatto che la meditazione permette di arginare l’empatia non di espanderla, val la pena riflettere sull’esperienza di Matthieu Ricard, monaco buddista e neuroscienziato, descritto anche come “l’uomo più felice del mondo”.
Ricard evidenzia l’importanza di distinguere tra compassione sentimentale, che corrisponde alla nostra empatia, e grande compassione che è la nostra “compassione”.
Tolta la sfera delle arti, di una certa comunicazione forse, per la scienza, l’organizzazione, la politica in tutte le sue manifestazioni è meglio affidarsi a un paradigma differente.
Più che il “con” dell’empatia, funzione il “per” della compassione”, espressione che messa così farà saltare sulla sedia più di uno, ma in fondo potrebbe bastare chiedersi: il dottore è bene che agisca sentendo empaticamente lo stato d’animo del paziente? A occhio e croce no.
P.S.
La questione dei cani è la seguente: molti abbracciano i cani pensando che a loro faccia piacere, studi e ricerche dicono il contrario e che abbracciamo i cani per nostro esclusivo piacere. Per quanto riguarda l’elemosina: farla a quanto pare ha effetti negativi se si intende favorire il generale miglioramento delle condizioni dei poveri. Non manca chi messo di fronte al fatto reagisce rivendicando che poco o nulla interessa di quel che accade sul piano generale. Che fare l’elemosina fa stare bene chi la fa. E come non provare empatia per chi propone una tal risposta?