Dove va il lavoro? Tra Grandi Dimissioni in USA, il manifesto contro il 996 in Cina e la possibile fine della disoccupazione in Italia
La Cina e il manifesto contro il 996
C’è una battuta ricorrente ogni qual volta si parla dell’inarrestabile crescita della Cina, diventata la seconda potenza mondiale aspirante a salire in vetta, con il Pil che pretende di raddoppiare entro il 2035. Bisognerebbe mandare lì i sindacati italiani, si dice, con accenti diversi, a seconda dell’opinione che si ha della triplice. La corsa si arresterebbe di colpo. In attesa dell’internazionale sindacalista tuttavia accadono cose di là dalla Grande Muraglia che lasciano ben sperare per chi da quelle parti ci lavora e non di rado – di lavoro – ci muore.
L’inferno cinese ha un numero fisso: 996, che sta per turni dalle 9 del mattino alle 9 di sera per 6 giorni la settimana. Una condizione comune non solo per personale poco qualificato e produzioni dozzinali, cineserie, ma anche per chi è impiegato nei colossi ad alto valore tecnologico (Alibaba, ByteDance, per esempio) con ruoli dirigenziali.
Quattro ragazzi, quattro stageur, hanno condiviso un foglio di calcolo in rete – potere della tecnologia, prove tecniche di sindacato 2.0 – , con un duplice obiettivo: raccogliere i dati sui reali orari di lavoro dai diretti interessati, fornire a chi entra nel mondo del lavoro e all’opinione pubblica uno strumento per migliorare la conoscenza delle condizioni dei lavoratori cinesi, con uno slogan (riportato anche in inglese) che suona familiare: Worker Lives Matter.
Lo hanno fatto da Shangai, dalla sede di Pinduoduo, la più grande piattaforma tecnologica cinese incentrata sull’agricoltura. Proprio in quella sede a gennaio un lavoratore si era suicidato per il troppo lavoro. Secondo la Reuters alla campagna hanno per ora aderito oltre quattromila persone. È un percorso complicato, in quel Paese di più, ci sono tentativi passati avviati e poi falliti, ma val la pena sperare che a Levante sorga una nuova alba più centrata sui diritti. Ché come lo è il lavoro, così lo è anche il riposo.
Usa: è tempo di Grandi Dimissioni
Saranno stati turni e straordinari prolungati oltremodo in alcuni settori, medicale, infermieristico, nella grande distribuzione, per esempio. O anche abitudini nuove intraprese durante la pandemia e il cambiamento del ritmo e della conduzione della quotidianità per un tempo prolungato. Sarà – sussurrano alcuni – la ridefinizione di una scala di priorità che sposta il discorso sul piano più “esistenziale” (da vivere per lavorare a lavorare per vivere, fino a smettere di lavorare per vivere).
Fatto sta che negli Stati Uniti non si sono mai registrate tante dimissioni dal lavoro come negli ultimi mesi: 4 milioni di persone nel solo mese di luglio, secondo le rilevazioni dell’ U.S. Bureau of Labour Statistics. E la tendenza sembra in crescita, con stime differenti, fino a quelle dell’indagine “Future of Work” di PricewaterhouseCoopers, che stima in addirittura 6 lavoratori su dieci quelli che starebbero cercando un impiego nuovo.
A leggere meglio nelle pieghe dei dati emerge che a fare il passo siano sostanzialmente i lavoratori tra i 30 e i 45 anni, soprattutto con profili tra i più “ricercati”. Il fenomeno riguarda molto meno i molto giovani, forse per via di una minore richiesta di profili di livello “iniziale” e una maggiore incertezza finanziaria per questa fascia anagrafica.
Il fenomeno sembra non sia limitato agli Usa, in Europa pure accade qualcosa di simile, in Inghilterra e in Germania in particolare. E le aziende corrono ai ripari, garantendo aumento dei salari e servizi collaterali tesi a fidelizzare ancora di più le figure professionali più ricercate.
Il fenomeno delle Grandi Dimissioni sbarca anche nel BelPaese? Come riporta Francesca Barbieri su IlSole24ore tra aprile e giugno 2021 ci sono state 484mila dimissioni. Un numero elevato, certo, con percentuali di crescita enormi sui trimestri precedenti. Tuttavia è presto per dire se si tratta di una frizione passeggera, complici lo stato di “sospensione” che ha accompagnato la crisi pandemica in Italia, tra blocco dei licenziamenti a fronte dell’estensione degli ammortizzatori sociali. Molti potrebbero aver colto l’opportunità per cambiare occupazione, visto anche l’andamento a zigzag della crescita sia della domanda sia delle retribuzioni. In altri casi potrebbe trattarsi di una modalità che ha accompagnato alcune ridefinizioni e riorganizzazioni aziendali, con incentivi per chi lasciava il posto. Certo è che l’Italia è storicamente un mercato meno dinamico e se prendesse forma questo fenomeno sarebbe una sorpresa, più che in Usa, in Uk, in Germania.
In Italia: parità salariale per legge, in attesa di politiche per entrare nel mondo del lavoro
Intanto alcune dinamiche in Italia sono abbastanza note ed evidenti. La divaricazione tra domanda e offerta di lavoro è segnata dalla mancanza di figure professionali e competenze – soprattutto tecniche – che, come evidenzia Unioncamere, le imprese fanno sempre più fatica a trovare. Di contrappunto la disoccupazione rimane a livelli assai elevati e riguarda per lo più professionalità difficili da collocare, persone che necessitano di percorsi di formazione mirati, orientati ai discenti più che a chi li organizza. Da ultimo, in attesa di politiche attive che segnino una svolta per ingresso e reinserimento al lavoro (Gol – Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori), una novità ha preso forma sul piano legislativo e un problema atavico pare prossimo alla soluzione. La parità di retribuzione tra uomo e donna è legge. Peccato abbiano dovuto appesantire le imprese di un altro peso burocratico su dati che tendenzialmente sono già nella disponibilità pubblica. Ma l’obiettivo resta pregevole e l’auspicio è che prenda forma e sostanza anche nel mondo reale del lavoro, oltre che nelle sedi legislative.
La disoccupazione, poi, potrebbe cessare di essere un problema per una ragione molto semplice. Le culle sono vuote, in un anno sono nati solo 400mila bimbi. Di questo passo tempo un paio di decenni e – se nulla cambia – ci saranno più posti vuoti che disoccupati.