La nuova tendenza per le imprese è farsi “benefit”. Perché può essere una buona scelta.
Da profit e benefit
Imprese non significa solo fare profitto e divederlo tra i soci. Ora più che mai. Le imprese più accorte perseguono già da tempo finalità anche di natura sociale, attraverso donazioni, supporto concreto a iniziative meritevoli, fondazioni dedicate, buone pratiche di responsabilità, procedure certificate di qualità. Ora questa attitudine di lungo corso ha trovato un approdo di grande tendenza: farsi “benefit”.
Sono società benefit quelle che assieme alle finalità di lucro perseguono, strutturalmente, anche una o più finalità “beneficio comune” e operano “in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse”.
Non si tratta di una nuova tipologia di società (ogni impresa, di capitali o di persone, può scegliere di diventare benefit), né di un nuovo modo di fare impresa sociale, né tanto meno di definire con un lessico più contemporaneo le attività svolte da operatori del terzo settore.
Semplicemente, come accade in tanti ambiti, anche per le finalità di impresa si può scegliere il modello ibrido: profitto e benessere comune.
Naturalmente occorre intervenire su aspetti formali, con apposite modifiche dello Statuto, e gestionali che portano – per esempio – alla produzione, a fianco al bilancio, anche a una relazione con tanto di indicatori di impatto, i cosiddetti BIA: Benefit Impact Assessment. Le imprese sono libere naturalmente anche di adottare indicatori differenti, come il Global Reporting Initiative o l’Iso 26000)
Italia pioniera, segue la Francia
Se per tanti altri indicatori il Bel Paese rimane, ahimè, fanalino di coda, nel caso delle imprese benefit si pone nel ruolo di pioniere, almeno di qua dall’Oceano; esperienze analoghe, infatti, sono comuni in diversi Stati a stelle e strisce e anche in qualche Paese Sudamericano. È già con la legge di stabilità 2016 (Legge 28 dicembre 2015, n. 208) che il legislatore va a normare le aziende che perseguono assieme alle finalità proprie di beneficio societario, quelle più ispirate dalla volontà di contribuire al beneficio comune, che riguardino l’ambiente, le comunità nelle quali si opera o singole categorie di interessi apprezzabili oltre il perimetro aziendale. A seguire altri Paesi, come la Francia, hanno legiferato nella medesima direzione.
A inizio 2022, ovvero cinque anni dopo l’ingresso delle società benefit nel nostro ordinamento, nonostante l’ultimo biennio di crisi pandemica, risultano essere oltre duemila le imprese che per prime hanno cambiato pelle e paradigma, completando le procedure per diventare benefit.
La norma fondante delle imprese benefit (L.208/2015)
I comma dal 376 al 384 del primo articolo della legge n.208 del 28 dicembre del 2015 apre la disciplina delle imprese benefit nel nostro Paese. Va notato che il legislatore dopo la definizione indica come elemento caratterizzante la necessità di indicare nell’oggetto sociale le finalità specifiche di beneficio comune che intende perseguire. La stessa va amministrata perseguendo un bilanciamento tra questo e gli interessi dei soci e che se poi non seguono le attività indicate questo può costituire un inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge e dallo statuto. Le aree di valutazione saranno il governo dell’impresa (incluso il grado di trasparenza), la “soddisfazione” in qualche modo di lavoratori e collaboratori, le relazioni con altri portatori di interesse, l’ambiente, inteso come impatto della società sullo stesso. Il tutto anche attraverso, come detto, Standard di Valutazione Esterni.
Una domanda che cresce sempre di più nel Paese
La richiesta di agire responsabilmente è sempre più alta. Lo si percepisce chiaramente dalle etichette dei prodotti di largo consumo, costellate non solo di richiami alla salute e alla genuinità del contenuto, ma anche al ruolo che l’impresa sta esplicando per un determinato progetto, territorio o su una tematica di comune interesse. E la conferma, qualora ve ne fosse bisogno, arriva anche da “Italia 2022, nella spirale dell’interregno – Un paese in transizione tra non più e non ancora” pubblicato a marzo 2022 da Ipsos.
La percentuale di italiani che ritengono che sia “giusto che marchi e aziende agiscano in prima persona rispetto a questioni sociali rilevanti, oltre a vendere prodotti o a offrire servizi” sale di ben 19 punti rispetto al 2019, dal 46% al 65% e impone ai brand– si legge nel rapporto dell’Ipsos – “il compito di umanizzarsi, di diventare membro attivo di una comunità e innescare così processi volti al benessere dell’intero pianeta”.
Una opportunità anche in chiave Pnrr
Farsi benefit può derivare dal mero approccio al mercato che gli imprenditori più illuminati hanno da sempre, nel solco di Adriano Olivetti. Ha un sicuro effetto positivo sul piano della reputazione con riflessi intuibili sul posizionamento e conseguentemente, seppure non in maniera riscontrabile al millesimo, sul proprio mercato di riferimento. Non si può escludere che farsi impresa benefit possa poi diventare in qualche maniera un elemento distintivo significativo e vincente anche nelle interazioni con la pubblica amministrazione, dai bandi alle nuove misure che prenderanno forma con il Pnrr. L’importante è che non diventi, come in alcuni contesti ahimè è da tempo, solo un modo nuovo di vestire il vecchio in maniera gattopardesca. Ci sono uffici costellati di certificazioni di qualità che non hanno mai visto un consulente o una procedure cambiata, il tutto nella sola, vecchia, ottica speculativa di tenere le carte a posto perché può sempre servire. Quello, se possibile, sarebbe bene provare a scongiurarlo, almeno questa volta.