Dall’altro lato dei pomodori.
Assaporano i pomodori freschi, cento per cento italiani, raccolti da nordafricani costretti a nero a schiattare sotto il Sole cocente per quattro spicci e poi trasportati da camionisti bulgari, tenuti svegli da farmaci e altri “eccitanti” illegali; la sera magari li ordinano tagliati sulla pizza impastata da egiziani che combattono a stento il caldo dei forni elettrici e i ritmi tachicardici; o sennò li fanno arrivare a casuccia in un delivery portato da un pachistano che prende trenta centesimi a chilometro se la consegna va a buon fine, con o senza pomodoro, con o senza l’alluvione.
Tifano squadre di pallone che senza gli stranieri sarebbero da serie inferiore, lo fanno da dentro case pulite, splendenti, per l’olio di gomito di ragazze ucraine o polacche che se non ci fossero chissà che ne sarebbe del servizio buono nella sala grande; affidano i genitori anziani alla compagnia e alla dedizione di signori sri lankesi che sanno cosa è la gentilezza e la potrebbero insegnare.
E poi applaudono a un miliardario statunitense che li schifa tanto quanto quelli là. Ma loro si credono dal lato buono, si pretendono dal lato del miliardario, dall’altro lato. Quello dei pomodori, ma non sono San Marzano, né cuore di Bue. Non sono nemmeno pomodori, se li guardi bene somigliano più ai cetrioli.