SUL POSTO FISSO NON FATEVI I FILM
Il posto, 60anni dopo il film cult di Ermanno Olmi
Domenico si alza che non è ancora l’alba, si sistema con il vestito buono e si avvia verso la porta di casa, per spostarsi da Meda verso Milano dove ha una selezione per entrare in una grande azienda. “Mi raccomando – gli fa dietro premurosa la madre – che, se riesci ad andare dentro lì, c’hai un posto sicuro per tutta la vita”. Comincia così “Il posto”, secondo lungometraggio di Ermanno Olmi, anno di grazia 1961.
Sessant’anni dopo le cose non stanno più esattamente così e tuttavia vi è una narrazione che sembra ancorata irrimediabilmente a quel mondo, con il rischio di fare danni enormi principalmente a chi intenderebbe tutelare: i lavoratori.
Quanto dura alla prova dei fatti un contratto di lavoro a tempo indeterminato
Che un lavoro possa durare tutta una vita, infatti, fuori dal pubblico impiego, è una mera illusione e chi prova a collegare al posto fisso la migliore forma di garanzia per il futuro professionale si espone ed espone a rischi elevati. Non è una opinione, è una evidenza statistica.
Un terzo dei contratti di lavoro a tempo indeterminato stipulati negli ultimi anni non ha superato, alla prova dei fatti, i dodici mesi effettivi di durata. Un’altra quota rilevante, il 13 – 14%, si è fermata tra uno e due anni di durata complessiva. Un altro 7 – 9% ha superato i due ma si è fermato prima dei tre anni. Ne consegue che oltre la metà dei contratti a tempo indeterminato non supera, di fatto, i tre anni di effettività. Quelli che durano una vita intera ormai sono come i capolavori al cinema, sempre più rari.
Non è una indagine campionaria a evidenziarlo, ma le Comunicazioni Obbligatorie, non riguarda alcuni casi specifici, ma l’intero mondo del lavoro in Italia.
Un mondo nuovo, anche nel lavoro
Di là dai proclami di taluni vanagloriosi paladini degli oppressi, pensare che un posto di lavoro duri una vita intera è pertanto illusorio e l’esigenza di stabilità sul lavoro va ricercata con modalità nuove, articolate e più concretamente tutelanti.
Un reddito minimo dignitoso va garantito a tutti, prima di tutto a chi non è nelle condizioni di poter lavorare. Va collegato però a un patto nuovo per chi deve inserirsi o reinserirsi nel mondo del lavoro.
La parola magica, spesso fraintesa, è occupabilità. Il centro dell’attenzione si deve spostare dal posto alla persona, perché quel posto tra qualche tempo non esisterà più o non esisterà più così come è (per via dell’automazione, per il cambiamento delle competenze necessarie, perché quella figura professionale non sarà più richiesta dal mercato, perché l’azienda chiuderà, perché cambierà produzione e per mille altre ragioni). La persona invece andrà accompagnata nei percorsi successivi, spesso frammentati, della vita professionale.
E i servizi dovranno garantire continuità di reddito e soprattutto formazione mirata. Non quella che ora serve soprattutto ai formatori, a fronte di cospicue risorse pubbliche investite.
Formazione, formazione e ancora formazione, ma mirata
I dati elaborati ormai sono tanti e tali che raccapezzarsi può essere arduo. Alcune tendenze, tuttavia, sono evidenti. La rapida obsolescenza delle competenze, per esempio. Il 60% di chi entra oggi nel mercato del lavoro entro il 2025 avrà mansioni che al momento non esistono, dicono da Oxford.
Il 20% dei lavoratori di domani troverà un’occupazione nel mondo della nuova industria, robotica, stampa 3D, logistica avanzata, riporta altra fonte della stessa risma.
In un Paese dove sono solo l’8,1% i lavoratori italiani impegnati in percorsi di apprendimento permanente, dove il 40% delle aziende sopra i 10 dipendenti non propone ai collaboratori nessuna opportunità di formazione, c’è tanto da fare. C’è da muoversi, ci vuole un piano, un percorso, più che un posto.
Che poi Ermanno Olmi sostenesse, dopo averlo sperimentato, che il posto fisso non meriterebbe tutta questa aspirazione è un altro discorso, che condurrebbe più lontano.